martedì, maggio 23, 2006

Mittticco Paolino!!

La scuola della sinistra....HELP!!!!!

Due considerazioni sulla nuova compagine ministeriale del governo Prodi. Oggi mi occupo di Fabio Mussi, ministro dell'Università e della ricerca. La settimana prossima mi occuperò di Francesco Rutelli, ministro dei Beni culturali.Nell'altro governo di centrosinistra, quello che iniziò il suo quinquennio nel '96, era ministro dell'Università Luigi Berlinguer. La sua riforma fu una presa d'atto della perdita progressiva della qualità e del valore degli studi accademici, e il ministro legittimò questa decadenza con una serie di provvedimenti che portarono alla licealizzazione dell'università.Berlinguer puntò al ribasso e sulla sindacalizzazione. Si moltiplicarono come funghi gli insegnamenti accademici e si perse ogni gerarchia di valore degli studi: l'esame di letteratura italiana si poteva, per esempio, sostituire con la storia del cinema. Non ci fu più una regola certa nel reclutamento dei professori, e tutti, proprio tutti, poterono diventare professori attraverso benevolenze sindacali e superficialità legislative. Così divenne malinconicamente realtà quella battuta di spirito di Italo Calvino con cui negli anni Sessanta provocatoriamente descriveva l'Italia come il Paese dove il 95 per cento della popolazione è composta da docenti universitari.Addio merito, addio competitività: grande attenzione era invece dedicata all'aumento di iscrizione dei giovani, irretiti e illusi dai più fantasiosi corsi di laurea che promettevano specializzazioni professionali inesistenti quanto idiote. Quello che non riuscì a fare il movimento studentesco del '68, fu concluso gloriosamente dalla riforma Berlinguer.Il ministro Moratti, ereditando questa sonnolenta e inebetita università, cercò di dinamizzarla, cambiando completamente l'idea stessa della funzione degli studi accademici, del ruolo dei docenti e della ricerca. Venne perciò aumentato del 13,5 per cento il finanziamento ordinario dell'università, passando da 6.162.880.000 euro del 2001, anno in cui Moratti assunse la responsabilità del ministero, a 7.028.000.000 nel 2005. Nello stesso tempo furono incrementati gli investimenti dello Stato per la ricerca fino a raggiungere l'attuale 0,72 per cento del Pil, contro una media europea dello 0,68 per cento. Un esempio, tra i tanti degli effetti di questa ripresa della ricerca negli istituti scientifici italiani è l'aumento del 47 per cento, in quattro anni, dei brevetti.L'università lentamente tornava ad essere un centro decisivo dello sviluppo del Paese. Continuerà per questo cammino? Temo di no.Mussi appartiene alla sinistra radicale dei Ds: affidargli l'università è un preciso segnale culturale che ci dà due indicazioni.La prima è che l'università non è ritenuta importante dal governo Prodi. La seconda è che nell'università ritornerà quell'ideologico conformismo sindacale che promuoverà passaggi di carriera del personale docente attraverso leggine apposite e che per gli studenti abolirà ogni principio di valutazione meritocratica.Abbiamo ascoltato negli ultimi cinque anni l'opposizione di sinistra tuonare perché l'Italia non si impegnava nell'innovazione e nella ricerca. Le bocche dei suoi soloni si riempivano di invettive moralistiche che denunciavano l'assenza di competitività del Paese,l'abbandono della ricerca, la fuga dei cervelli.Come si fa a reclamare l'innovazione, la ricerca, la competitività e poi appena il centrosinistra assume responsabilità di governo si affida all'ala radicale della coalizione proprio il ministero dell'Università e della ricerca? È evidente che il ministero dell'Università sia stato considerato una modesta poltrona da assegnare a una parte politica poco rilevante della coalizione e tuttavia andava ripagata per il semplice fatto di esistere. È evidente che il centrosinistra abbia maggiore interesse a stabilire un rapporto con le componenti sindacali dell'università più regressive e antimoderne anziché sostenere la vitalità competitiva della formazione accademica e della ricerca.
Stefano Zecchi - Il Giornale - 21/05/06

giovedì, maggio 11, 2006

Aridaje

Non siamo noi che insistiamo, è lui che fa un po' schifo. È rimasto giusto Marco Travaglio a lagnarsi perché la legge è stata applicata e infine Cesare Previti ha ottenuto i domiciliari: manco all'Unità probabilmente sono tutti d'accordo con lui. Ieri l'altro si era doluto perché c'era stata gente che Previti si era permessa addirittura di andarlo a trovare, ieri invece il pregiudicato Travaglio ha descritto quella che ha definito «un'oligarchia di mandarini» o meglio «la casta degli intoccabili» o meglio «una casta trasversale che non si dà pace perché uno dei nostri è in carcere» o meglio «la casta» (a ridaje) che da destra a sinistra «levava alti lai perché Previti fosse rimesso fuori a qualunque costo». Cioè applicando la legge. Questo da destra a sinistra, certo: il coraggioso Travaglio ha fatto anche i nomi del direttore di Liberazione Piero Sansonetti e dell'ex parlamentare rifondatore Giuliano Pisapia, rei di aver proposto soluzioni ad personam per Previti medesimo, follia: un signore che, dice sempre Travaglio, «bisogna tirarlo fuori al più presto perché è uno del giro». Che giro? Forse la mafia, visto che, conclusione di Travaglio, «resta da capire che differenza c'è tra questa politica e la mafia». Fossimo noi Sansonetti o Pisapia, incassata la definizione di mafiosi, la differenza gliela spiegheremmo a mezzo di qualcosa che implica una funzione attiva del nostro piede. Va bene anche il sinistro.
Filippo Facci - Il Giornale - 11/05/05

mercoledì, maggio 10, 2006

Andy vs Fidel


Dopo Mel Gibson adesso Hollywood ha trovato un nuovo «nemico»: il cubano Andy Garcia. SeGibson aveva messo all’angolo il conformismo del cinema Usa con La Passione di Cristo, Garcia lo fa ora raccontando una storia che contesta i cliché della Hollywood liberal. In The Lost City, il film con cui ha esordito alla regia, l’attore che vi appare anche come protagonista, è riuscito finalmente a svelare i retroscena della rivoluzione cubana. Per lui è il coronamento di una lunga attesa. Andy Garcia aveva cinque anni quando la sua famiglia fuggì da Cuba e chiese asilo politico a Miami. Ma l’attore non si era dimenticato della vita su un’isola che nel 1958 aveva entrate pro capite più alte di quelle dell’Austria e del Giappone. Una Cuba dove lo stipendio medio dei lavoratori era all’ottavo posto nella graduatoria mondiale e dove si era stabilito un massimo di otto ore lavorative giornaliere cinque anni prima del New Deal del presidente Franklyn Delano Roosevelt. Con l’arrivo di Fidel Castro quella Cuba era sparita ma l’attore non l’aveva dimenticata. Mentre la sua famiglia si costruiva un impero nel settore dei profumi, Andres Arturo Garcia Menendes aveva abbandonato il sogno di diventare un giocatore di baseball, si era accorciato il nome e si era dedicato al cinema, pensando che un giorno avrebbe trovato il coraggio di raccontare. La fama era arrivata, registi come Francis Coppola, Ridley Scott e Brian De Palma l’avevano scritturato per dei film indimenticabili come Il Padrino e Hollywood l’aveva definito attore «serio, privato, imperscrutabile». Persino il suo matrimonio con Maria Victoria, che dura dal 1982 e dal quale sono nate tre splendide figlie, è una rarità in un
mondo del cinema dove anche i cuori sono effimeri. Poi sedici annifa, Garcia aveva deciso di trasformare la sua nostalgia per la vecchia Cuba in un film su Castro e la sua rivoluzione. Voleva farne uno specchio fedele di quella che era stata la sua Avana e non la somma degli stereotipi politicamente corretti frequentati dalla Hollywood filocastrista e filoguevarista. The Lost City è arrivato nelle sale americane dopo un cammino difficile: i festival del cinema si sono rifiutati di programmarlo e al cuni Paesi sudamericani l’hanno già bandito. Scritto da un altro cubano, Guillermo Cabrera, narra la storia di Fico, proprietario di un night club di successo dell’Avana e spettatore della rivoluzione di Castro. Intorno a lui c’è quel mondo della classe media che aveva sostenuto l’ascesa di Fidel nella rivolta contro Batista fino a formare il suo primo gabinetto composto da sette avvocati, due professori universitari, tre studenti, un medico, un ingeniere, un architetto, un ex sindaco e un colonnello. «Nel suo film sulla rivoluzione cubana, Garcia non ci mostra quasi mai i lavoratori per cui quella rivoluzione era stata combattuta», scrive Peter Reiner sul Christian Science Monitor: «TheLost City manca completamente di complessità storica». «Garcia si sofferma solo sulla perdita dei benefici di una piccola minoranza di ricchi», gli fa eco Michael Atkinson sul Village Voice: «i poveri non si vedono mai». Si accanisce ancor di più Rex Reed sul New York Observer: «The Lost City non si sofferma mai sui poveri lavoratori la cui disperazione aveva incendiato la rivoluzione». Si diverte anche il critico del New York Times, che prende in giro la pellicola di Garcia: «Come si vede, la vita cubana prima di Fidel Castro era proprio tutta rose e fiori». Gli ha risposto, ferocemente, Human Events un sito conservatore su cui scrive un cubano di come Humberto Fontova, uno dei pochi che si è lanciato a difendere Garcia: «Hollywood, basta con l’ignoranza. Andate a leggere il rapporto redatto dall’Unesco nel 1957 dal quale si capisce che Cuba era composta per la maggior parte dalla classe media, con uno stipendio medio giornaliero più alto di quello del Belgio, della Danimarca, di Francia e Germania».

Silvia Kramar - Il Giornale - 09/05/06

Forcaioli

Non siamo noi che insistiamo, sono loro che fanno schifo. Sono loro, una volta incassato l'inutile passaggio carcerario di Cesare Previti, che adesso si dolgono perché ci sono dei politici e degli amici che si permettono di andarlo a trovare, e perché ci sono alcuni esponenti del centrosinistra che addirittura sottolineano che i domiciliari sono un diritto. Ma sono fatti così, e basta saperlo. Dunque sappiatelo, amici di Marco Travaglio o di altri lavoranti dell'Unità: se avrete problemi, verrete schifati e abbandonati al vostro destino. «Un premier in carica ­ parole del pregiudicato Travaglio ­ scrive a un galeotto dandogli appuntamento ai domiciliari». Scandalo. E giù ancora col racconto della madre di un condannato a 5 anni che ha trascorso tutta la pena in carcere (l'Unità l'aveva già citata l'altro ieri) con l'omissione che il ragazzo è stato condannato per rapina, e che i domiciliari, se avesse avuto 70 anni, li avrebbe ottenuti anche lui. Macché: è una legge ad personam. Per aiutare il solo Previti hanno impedito che anche migliaia di vecchi potessero finire i loro giorni in galera, è chiaro. «Gli amici non si lasciano mai soli, specie se sono stretti» ironizzava sull'Unità un vice Travaglio: ed è proprio così. È vero. Gli amici non si lasciano mai soli, specie se sono stretti. Confermiamo tutto. Qualcosa da obiettare?
Filippo Facci - Il Giornale - 10/05/06

lunedì, maggio 08, 2006

Need help?

Il Giornale - 8/5/06

sabato, maggio 06, 2006

Speriamo bene...